Nofer ha scritto:Gli addetti della ditta che fa le pulizie, ad esempio, può darsi non fumino, e non si può costringerli a lavorare in ambiente che tanfa di fumo.
I rappresentanti pure. Gli autisti dei clienti e/o dei fornitori. I clienti. I fornitori. Gli aspiranti clienti e gli aspiranti fornitori. I signori degli organi di vigilanza che magari non fumano ma devono poter accedere a tutti i luoghi di lavoro.
Insomma, più che di un problema di superficie percentuale mi pare che la difficoltà sia nell'escludere le "zone di transito e passaggio", che rigorosamente devono essere esenti da fumo.
Io ritengo che il DdL, per quanto nolente, sia tenuto a predisporre dei locali appositi, come da DM e circolari esplicative.
Punto interessante. Posto una interpretazione di parere opposto dei miei partner relativa all'esistenza di zone che sono "riservate ai soli fumatori". Per Nofer queste zone non esistono; ovvero, potrò sempre avere personale od esterni NOn fumatori che ci devono passare i lavorare saltuariamente, quindi il divieto vige in tutta l'azienda tranne la stanza del capo (forse) e l'apposita area fumatori.
Leggete quel che segue e commentate, son proprio curioso (per inciso io odio le sigarette, la pipa, i sigari, ecc.: invece adoro il narghilé e prima o poi mi trasferisco in Egitto sul mar Rosso).
Divieto di fumare nei luoghi di lavoro.
La Circolare Ministeriale 17 dicembre 2004 («Circolare Sirchia»), all’articolo 2, 4° paragrafo, recita: «Il divieto di fumare trova applicazione non solo nei luoghi di lavoro pubblici, ma anche in tutti quelli privati, che siano aperti al pubblico o ad utenti. Tale accezione comprende gli stessi lavoratori dipendenti in quanto «utenti» dei locali nell'ambito dei quali prestano la loro attività lavorativa. È infatti interesse del datore di lavoro mettere in atto e far rispettare il divieto, anche per tutelarsi da eventuali rivalse da parte di tutti coloro che potrebbero instaurare azioni risarcitorie per danni alla salute causati dal fumo».
Osservazioni.
Premesso che:
– il Datore di lavoro ha l’obbligo di valutare i rischi per la salute dei lavoratori ed eliminarli o, ove ciò non sia possibile, ridurli;
– il fumo passivo è classificato come cancerogeno di Gruppo I nella monografia IARC , volume 83, sulla valutazione del rischio da cancerogeni per l’essere umano;
– il fumo passivo, essendo cancerogeno, rientra tra gli agenti chimici pericolosi (Titolo VII-bis, D. Lgs 626/94);
a nostro parere si possono riscontrare delle situazioni dove, pur con tutte le cautele del caso, può essere ammesso fumare nel luogo di lavoro, una volta valutata la non presenza di pubblico e/o utenti, l’altezza e la corretta ventilazione dei locali, una sufficiente distanza dei lavoratori non fumatori dai lavoratori fumatori e verificata l’assenza di richieste specifiche da parte dei non fumatori.
Pur ritenendo apprezzabile l’indicazione del Ministro Sirchia, si ritiene che definire i lavoratori «utenti» dei locali nell’ambito dei quali prestano la loro attività lavorativa sia quantomeno opinabile (la legge 16 gennaio 2003, n. 3, art. 51, comma 1, specifica che è vietato fumare nei locali chiusi, ad eccezione di quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico …).
Ricordato che l’articolo 12 delle «Disposizioni sulla legge in generale» specifica che «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore», si ritiene che un lavoratore presti sì la propria attività presso il luogo di lavoro, ma non per questo ne divenga «utente».
Quindi, no utenti e no personale NON fumatore = permesso di fumare.
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