Credo di si, per quanto non esiste la formula esatta, dipenderà, per tutti noi, caso per caso.
Resta il principio; analizzare, proporre soluzioni in determinati tempi, sollecitare, sollecitare, sollecitare, sollecitare, sollecitare, andarsene (chi può), infine denunciare.
Il forum di SICUREZZAONLINE è stato ideato, realizzato e amministrato per oltre 15 anni da Giuseppe Zago (Mod).
A lui va la nostra gratitudine ed il nostro affettuoso ricordo.
A lui va la nostra gratitudine ed il nostro affettuoso ricordo.
RESPONSABILITA RSPP
- weareblind
- Messaggi: 3254
- Iscritto il: 07 ott 2004 20:36
We are blind to the worlds within us waiting to be born
adesso studiami anche una soluzione per "chi non può" e abbiamo risolto tutto :smt046
Sauzer
Sauzer
Per chi non avesse seguito la vicenda della casa di cura "Galeazzi", riporto il commento alla sentenza di un GIP del tribunale di Milano (si evince che in questo caso il RSPP non ha svolto bene il proprio lavoro).
Spero che i riferimenti siano leciti in quanto si tratta di sentenza del Tribunale Ordinario di Milano, sez. IV penale,13 ottobre 1999 (dep. 11 marzo 2000), attendo eventuali censure o interventi del sig. Mod.
Commento
di W.S., GIP presso il Tribunale di Milano
In data 11 marzo 2000 è stata depositata l’attesa sentenza relativa alla vicenda nota come “caso Galeazzi”, e cioè riguardante l’incendio scoppiato nella camera iperbarica installata nell’Ospedale, nella quale perirono undici persone mentre erano in terapia.
L’interesse per la pronuncia del Tribunale di Milano sta nel fatto che si tratta di una delle prime sentenze con le quali si prende in considerazione l’organizzazione della sicurezza sul lavoro in una struttura aziendale complessa in costanza di infortunio, alla luce della normativa di recepimento delle direttive comunitarie di carattere sociale.
L’analisi della vicenda merita una premessa: la giurisprudenza di merito e di legittimità ormai da anni puntualizza il carattere “oggettivo” della normativa in tema di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro; ciò significa affermare che quando in un luogo si applica la normativa prevenzionale a tutela del lavoro, questa tutela comunque ogni soggetto che acceda in quello spazio.
La considerazione legittima, quindi, la ricostruzione giuridica operata dal Tribunale di Milano anche in relazione all’evento lesivo subito dai privati cittadini deceduti nell’incendio.
La valutazione delle responsabilità dei singoli soggetti imputati ruota, dunque, intorno al punto cardine dell’organizzazione aziendale individuato dal D.Lgs. 626/1994, e successive modifiche, nella valutazione dei rischi prevista dall’articolo 4. La norma, infatti, accolla al datore di lavoro, in modo indelegabile (vedi art 1, comma 4 ter ), l’analisi dei rischi connessi al ciclo produttivo, dei rimedi a fronte di quelli, nonchè il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.
Al datore di lavoro, dunque, si richiede di organizzare la sicurezza, prevedendo e prevenendo i potenziali danni cagionati dalla struttura aziendale, con ciò facendo “ex ante” ciò che, se non effettuato o fatto in modo incongruo, lo responsabilizza nei delitti di lesioni, omicidio o disastro colposi, tenuto conto che l’essenza della colpa sta proprio nella prevedibilità e nella prevenibilità dell’evento.
A tale soggetto viene richiesto innanzitutto l’impegno per l’attuazione della sicurezza in senso oggettivo: ciò evoca il concetto di fattibilità tecnologica.
In materia interviene la Corte Costituzionale con sentenza 312 del 1996, nella quale, investita circa la sussistenza del requisito costituzionale della tassatività della norma penale in relazione all’articolo 25 della Costituzione, la Consulta ritiene che “il modo per restringere la discrezionalità dell’interprete è ritenere che (...) il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicchè penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto ed al momento, delle diverse attività produttive”.
Ma in che cosa consista lo “standard”, tenuto conto inoltre del fatto che trattasi di una “finestra tecnologica” in evoluzione, si comprende considerando la giurisprudenza, anche della Suprema corte, che da anni ormai insiste sul concetto di fattibilità tecnologica. Sul punto valga per tutte Cassazione Penale, sez. IV, 27 settembre 1994, n. 10164ed altre conformi e più recenti, nella quale si legge che “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nella condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. L’articolo 2087 c.c., infatti, nell’affermare che l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche”.
Il concetto ha una valenza specifica anche in sede civile. Si consideri, tra le altre, Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 12863/98, nella quale, al fine di definire l’onere della prova accollata alle parti in tema di risarcimento dei danni cagionati dal datore di lavoro, si legge che “gli accertamenti diretti all’obbligazione cosiddetta di protezione di cui all’articolo 2087 c:c. possono apparire congrui ed idonei in rapporto ad una premessa che deve ritenersi esatta, ma solo nella parte in cui è posta in relazione all’inevitabile progredire della scienza e della tecnica”.
E’ possibile allora ritenere che l’obbligo della sicurezza oggettiva accollato al datore di lavoro sia un principio ormai immanente nell’ordinamento giuridico. Ciò evoca l’individuazione di datore di lavoro in quel soggetto, o in quei soggetti, i quali siano funzionalmente in grado di far fronte alle incombenze accollate dalla legge.
Il problema si pone in modo evidente nelle strutture aziendali complesse, in relazione alle quali è necessario individuare i livelli decisionali dell’ente deputati ed in grado di soddisfare la posizione di garanzia accollata al datore di lavoro. Si considera, innanzitutto, che non si tratta necessariamente di individuare un’unica persona fisica, essendo concepibile che il ruolo venga svolto contestualmente da una pluralità di soggetti: si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui l’ente sia amministrato da un consiglio (vedi art 2380, comma 2, c.c.), con la conseguenza che la figura di datore di lavoro può cadere sull’intero consiglio di amministrazione. Su questa prospettiva, del resto tutt’altro che sporadica, si è orientato il Tribunale di Milano nella sentenza che si commenta. Il problema successivo, semmai, è quello di verificare la sussistenza in capo a ciascuno dei soggetti officiati del ruolo di datore di lavoro dell’ipotesi di responsabilità penali che, come si sa, sono personali.
La figura di datore di lavoro, nelle strutture complesse, evoca il sistema di gestione aziendale, del quale garantisce tale soggetto, che passa attraverso il sistema delle deleghe di potere al dirigente ed al preposto. Esiste copiosa giurisprudenza ormai pluridecennale, anche del Supremo Collegio, sul punto. Valga per tutte Cassazione penale, sezione III, sentenza n. 5242/96, nella quale si legge che in materia antinfortunistica, così come in materia ambientale, la delega degli adempimenti da parte dell’imprenditore ad altri soggetti è legittima alle seguenti condizioni: sotto l’aspetto oggettivo, le dimensioni dell’azienda, che devono essere tali da giustificare la necessità di decentrare compiti e responsabilità; l’effettivo trasferimento dei poteri in capo al delegato con l’attribuzione di una completa autonomia decisionale e di gestione e con piena disponibilità economica; l’esistenza di precise ed ineludibili norme interne o disposizioni statutarie, che disciplinino il conferimento della delega ed adeguata pubblicità alla medesima; uno specifico e puntuale contenuto della delega; sotto l’aspetto soggettivo: la capacità e l’idoneità tecnica del soggetto delegato (culpa in eligendo); il divieto di ingerenza da parte del delegante nell’espletamento dell’attività del delegato; l’insussistenza di una richiesta di intervento da parte del delegato; la mancata conoscenza della negligenza o della sopravvenuta inidoneità del delegato (culpa in vigilando).
Alla luce di quanto detto, è di tutta evidenza che dell’organizzazione aziendale risponde e garantisce il datore di lavoro.
Dal sistema delle deleghe va distinto il ruolo accollato ai professionisti che collaborano con il datore di lavoro e con la struttura aziendale in tema di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, e cioè il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) ed il Medico competente, nei casi in cui quest’ultimo soggetto sia previsto dalla legge.
La sentenza che si commenta coglie esattamente il ruolo e la portata dei compiti accollati al RSPP, il quale non è il responsabile della sicurezza aziendale, tale essendo il datore di lavoro per la sua posizione di garanzia, ma ne è semplicemente il consulente in tema di sicurezza. Si legge, infatti, sul punto, che il RSPP “ha dimostrato di ignorare completamente l’ossigenoterapia iperbarica e lo specifico rischio connesso a tale attività e la lettura della scheda relativa dimostra in maniera lampante che non è stato individuato questo tipico fattore di rischio e conseguentemente non sono state individuate misure di prevenzione e protezione”. Prosegue il Tribunale osservando che “qualunque sia la difesa che verrà sviluppata dal RSPP nel processo che lo riguarda (ed in relazione al quale era stato disposto uno stralcio per motivi tecnici), ciò che qui rileva non è la ragione per la quale l’esperto esterno è venuto meno in tutto e per tutto al proprio compito, bensì appurare che il documento di valutazione del rischio è indiscutibilmente privo di contenuto per trarne le conseguenze in ordine all’impossibilità di invocare un affidamento nella condotta consultiva altrui a fronte di omissione della condotta doverosa da parte del datore di lavoro”.
L’ipotesi di addebito di responsabilità al RSPP, come si evince, è per fatto proprio, ed è cioè connessa all’attività di consulenza in tema di sicurezza, al fine di mettere il datore di lavoro nella migliore condizione di effettuare le scelte che gli competono in quanto responsabile della sicurezza.
Accanto gli obblighi relativi alla sicurezza in senso oggettivo ed all’organizzazione aziendale, al datore di lavoro sono accollate le incombenze circa la sicurezza soggettiva, che passa attraverso gli obblighi di formazione ed informazione dei lavoratori e dei soggetti ad essi equiparati. In verità, ancora prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 626/1994, e successive modifiche, la giurisprudenza evidenziava la sussistenza di tali obblighi in capo al datore di lavoro (vedi sul punto l’elaborazione giurisprudenziale in relazione all’articolo 4, lett b), DPR 547/1955). Ciò che, peraltro, qualifica la nuova disciplina che ruota attorno agli articoli 21 (informazione dei lavoratori) e 22 (formazione dei lavoratori) del D.Lgs. 626/1994, è il fatto che tali obblighi di sicurezza soggettiva presuppongono il fatto che il datore di lavoro, avvalendosi del contributo professionale dei suoi consulenti (RSPP e medico competente) abbia effettuato una congrua valutazione dei rischi nei termini e modi previsti dal citato articolo 4 del D.Lgs. 626/1994.
La sentenza in commento analizza con dovizia di particolari anche tale aspetto della sicurezza giungendo ad affermare che “la violazione del dovere di fornire un’informazione sui rischi non approssimativa, è conseguita alla stima del rischio e ha contribuito a formare il personale sanitario e tecnico in maniera da renderlo del tutto impreparato all’evento, con la conseguenza che il sistema dei controlli ha perduto ogni efficacia di prevenzione”.
Il Tribunale giunge così, spaziando fra tanta e complessa materia che ci si è sforzati di sintetizzare, ad affermare la responsabilità dei singoli soggetti facenti parte dell’organigramma aziendale, accollando loro le responsabilità connesse ai poteri che gli stessi in concreto svolgevano, a partire dal vertice societario, e cioè da quei soggetti che avevano l’obbligo indelegabile di organizzare il sistema di sicurezza.
Spero che i riferimenti siano leciti in quanto si tratta di sentenza del Tribunale Ordinario di Milano, sez. IV penale,13 ottobre 1999 (dep. 11 marzo 2000), attendo eventuali censure o interventi del sig. Mod.
Commento
di W.S., GIP presso il Tribunale di Milano
In data 11 marzo 2000 è stata depositata l’attesa sentenza relativa alla vicenda nota come “caso Galeazzi”, e cioè riguardante l’incendio scoppiato nella camera iperbarica installata nell’Ospedale, nella quale perirono undici persone mentre erano in terapia.
L’interesse per la pronuncia del Tribunale di Milano sta nel fatto che si tratta di una delle prime sentenze con le quali si prende in considerazione l’organizzazione della sicurezza sul lavoro in una struttura aziendale complessa in costanza di infortunio, alla luce della normativa di recepimento delle direttive comunitarie di carattere sociale.
L’analisi della vicenda merita una premessa: la giurisprudenza di merito e di legittimità ormai da anni puntualizza il carattere “oggettivo” della normativa in tema di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro; ciò significa affermare che quando in un luogo si applica la normativa prevenzionale a tutela del lavoro, questa tutela comunque ogni soggetto che acceda in quello spazio.
La considerazione legittima, quindi, la ricostruzione giuridica operata dal Tribunale di Milano anche in relazione all’evento lesivo subito dai privati cittadini deceduti nell’incendio.
La valutazione delle responsabilità dei singoli soggetti imputati ruota, dunque, intorno al punto cardine dell’organizzazione aziendale individuato dal D.Lgs. 626/1994, e successive modifiche, nella valutazione dei rischi prevista dall’articolo 4. La norma, infatti, accolla al datore di lavoro, in modo indelegabile (vedi art 1, comma 4 ter ), l’analisi dei rischi connessi al ciclo produttivo, dei rimedi a fronte di quelli, nonchè il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.
Al datore di lavoro, dunque, si richiede di organizzare la sicurezza, prevedendo e prevenendo i potenziali danni cagionati dalla struttura aziendale, con ciò facendo “ex ante” ciò che, se non effettuato o fatto in modo incongruo, lo responsabilizza nei delitti di lesioni, omicidio o disastro colposi, tenuto conto che l’essenza della colpa sta proprio nella prevedibilità e nella prevenibilità dell’evento.
A tale soggetto viene richiesto innanzitutto l’impegno per l’attuazione della sicurezza in senso oggettivo: ciò evoca il concetto di fattibilità tecnologica.
In materia interviene la Corte Costituzionale con sentenza 312 del 1996, nella quale, investita circa la sussistenza del requisito costituzionale della tassatività della norma penale in relazione all’articolo 25 della Costituzione, la Consulta ritiene che “il modo per restringere la discrezionalità dell’interprete è ritenere che (...) il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicchè penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto ed al momento, delle diverse attività produttive”.
Ma in che cosa consista lo “standard”, tenuto conto inoltre del fatto che trattasi di una “finestra tecnologica” in evoluzione, si comprende considerando la giurisprudenza, anche della Suprema corte, che da anni ormai insiste sul concetto di fattibilità tecnologica. Sul punto valga per tutte Cassazione Penale, sez. IV, 27 settembre 1994, n. 10164ed altre conformi e più recenti, nella quale si legge che “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nella condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. L’articolo 2087 c.c., infatti, nell’affermare che l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche”.
Il concetto ha una valenza specifica anche in sede civile. Si consideri, tra le altre, Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 12863/98, nella quale, al fine di definire l’onere della prova accollata alle parti in tema di risarcimento dei danni cagionati dal datore di lavoro, si legge che “gli accertamenti diretti all’obbligazione cosiddetta di protezione di cui all’articolo 2087 c:c. possono apparire congrui ed idonei in rapporto ad una premessa che deve ritenersi esatta, ma solo nella parte in cui è posta in relazione all’inevitabile progredire della scienza e della tecnica”.
E’ possibile allora ritenere che l’obbligo della sicurezza oggettiva accollato al datore di lavoro sia un principio ormai immanente nell’ordinamento giuridico. Ciò evoca l’individuazione di datore di lavoro in quel soggetto, o in quei soggetti, i quali siano funzionalmente in grado di far fronte alle incombenze accollate dalla legge.
Il problema si pone in modo evidente nelle strutture aziendali complesse, in relazione alle quali è necessario individuare i livelli decisionali dell’ente deputati ed in grado di soddisfare la posizione di garanzia accollata al datore di lavoro. Si considera, innanzitutto, che non si tratta necessariamente di individuare un’unica persona fisica, essendo concepibile che il ruolo venga svolto contestualmente da una pluralità di soggetti: si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui l’ente sia amministrato da un consiglio (vedi art 2380, comma 2, c.c.), con la conseguenza che la figura di datore di lavoro può cadere sull’intero consiglio di amministrazione. Su questa prospettiva, del resto tutt’altro che sporadica, si è orientato il Tribunale di Milano nella sentenza che si commenta. Il problema successivo, semmai, è quello di verificare la sussistenza in capo a ciascuno dei soggetti officiati del ruolo di datore di lavoro dell’ipotesi di responsabilità penali che, come si sa, sono personali.
La figura di datore di lavoro, nelle strutture complesse, evoca il sistema di gestione aziendale, del quale garantisce tale soggetto, che passa attraverso il sistema delle deleghe di potere al dirigente ed al preposto. Esiste copiosa giurisprudenza ormai pluridecennale, anche del Supremo Collegio, sul punto. Valga per tutte Cassazione penale, sezione III, sentenza n. 5242/96, nella quale si legge che in materia antinfortunistica, così come in materia ambientale, la delega degli adempimenti da parte dell’imprenditore ad altri soggetti è legittima alle seguenti condizioni: sotto l’aspetto oggettivo, le dimensioni dell’azienda, che devono essere tali da giustificare la necessità di decentrare compiti e responsabilità; l’effettivo trasferimento dei poteri in capo al delegato con l’attribuzione di una completa autonomia decisionale e di gestione e con piena disponibilità economica; l’esistenza di precise ed ineludibili norme interne o disposizioni statutarie, che disciplinino il conferimento della delega ed adeguata pubblicità alla medesima; uno specifico e puntuale contenuto della delega; sotto l’aspetto soggettivo: la capacità e l’idoneità tecnica del soggetto delegato (culpa in eligendo); il divieto di ingerenza da parte del delegante nell’espletamento dell’attività del delegato; l’insussistenza di una richiesta di intervento da parte del delegato; la mancata conoscenza della negligenza o della sopravvenuta inidoneità del delegato (culpa in vigilando).
Alla luce di quanto detto, è di tutta evidenza che dell’organizzazione aziendale risponde e garantisce il datore di lavoro.
Dal sistema delle deleghe va distinto il ruolo accollato ai professionisti che collaborano con il datore di lavoro e con la struttura aziendale in tema di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, e cioè il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) ed il Medico competente, nei casi in cui quest’ultimo soggetto sia previsto dalla legge.
La sentenza che si commenta coglie esattamente il ruolo e la portata dei compiti accollati al RSPP, il quale non è il responsabile della sicurezza aziendale, tale essendo il datore di lavoro per la sua posizione di garanzia, ma ne è semplicemente il consulente in tema di sicurezza. Si legge, infatti, sul punto, che il RSPP “ha dimostrato di ignorare completamente l’ossigenoterapia iperbarica e lo specifico rischio connesso a tale attività e la lettura della scheda relativa dimostra in maniera lampante che non è stato individuato questo tipico fattore di rischio e conseguentemente non sono state individuate misure di prevenzione e protezione”. Prosegue il Tribunale osservando che “qualunque sia la difesa che verrà sviluppata dal RSPP nel processo che lo riguarda (ed in relazione al quale era stato disposto uno stralcio per motivi tecnici), ciò che qui rileva non è la ragione per la quale l’esperto esterno è venuto meno in tutto e per tutto al proprio compito, bensì appurare che il documento di valutazione del rischio è indiscutibilmente privo di contenuto per trarne le conseguenze in ordine all’impossibilità di invocare un affidamento nella condotta consultiva altrui a fronte di omissione della condotta doverosa da parte del datore di lavoro”.
L’ipotesi di addebito di responsabilità al RSPP, come si evince, è per fatto proprio, ed è cioè connessa all’attività di consulenza in tema di sicurezza, al fine di mettere il datore di lavoro nella migliore condizione di effettuare le scelte che gli competono in quanto responsabile della sicurezza.
Accanto gli obblighi relativi alla sicurezza in senso oggettivo ed all’organizzazione aziendale, al datore di lavoro sono accollate le incombenze circa la sicurezza soggettiva, che passa attraverso gli obblighi di formazione ed informazione dei lavoratori e dei soggetti ad essi equiparati. In verità, ancora prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 626/1994, e successive modifiche, la giurisprudenza evidenziava la sussistenza di tali obblighi in capo al datore di lavoro (vedi sul punto l’elaborazione giurisprudenziale in relazione all’articolo 4, lett b), DPR 547/1955). Ciò che, peraltro, qualifica la nuova disciplina che ruota attorno agli articoli 21 (informazione dei lavoratori) e 22 (formazione dei lavoratori) del D.Lgs. 626/1994, è il fatto che tali obblighi di sicurezza soggettiva presuppongono il fatto che il datore di lavoro, avvalendosi del contributo professionale dei suoi consulenti (RSPP e medico competente) abbia effettuato una congrua valutazione dei rischi nei termini e modi previsti dal citato articolo 4 del D.Lgs. 626/1994.
La sentenza in commento analizza con dovizia di particolari anche tale aspetto della sicurezza giungendo ad affermare che “la violazione del dovere di fornire un’informazione sui rischi non approssimativa, è conseguita alla stima del rischio e ha contribuito a formare il personale sanitario e tecnico in maniera da renderlo del tutto impreparato all’evento, con la conseguenza che il sistema dei controlli ha perduto ogni efficacia di prevenzione”.
Il Tribunale giunge così, spaziando fra tanta e complessa materia che ci si è sforzati di sintetizzare, ad affermare la responsabilità dei singoli soggetti facenti parte dell’organigramma aziendale, accollando loro le responsabilità connesse ai poteri che gli stessi in concreto svolgevano, a partire dal vertice societario, e cioè da quei soggetti che avevano l’obbligo indelegabile di organizzare il sistema di sicurezza.
Aggiorniamoci visionando l'infocronoarchivio e specialLinks
Aggiungo anche che i componenti del servizio aziendale di prevenzione, essendo semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale. Essi sono soltanto dei consulenti e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico ecc.), vengono fatti propri da chi li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario.
Tuttavia occorre segnalare che con sentenza 9 gennaio 2002 n. 500 la seziona Quarta penale della Corte di Cassazione ha affermato che “una compiuta lettura della normativa”, ovvero del D. Lgs. n. 626/94, “consente di affermare che i precetti normativi in argomento hanno per destinatario oltre il datore di lavoro anche il responsabile della sicurezza, in posizione di solidarietà e quindi di compartecipazione concorsuale”.
Tuttavia occorre segnalare che con sentenza 9 gennaio 2002 n. 500 la seziona Quarta penale della Corte di Cassazione ha affermato che “una compiuta lettura della normativa”, ovvero del D. Lgs. n. 626/94, “consente di affermare che i precetti normativi in argomento hanno per destinatario oltre il datore di lavoro anche il responsabile della sicurezza, in posizione di solidarietà e quindi di compartecipazione concorsuale”.
Aggiorniamoci visionando l'infocronoarchivio e specialLinks
... eppure io credo che non sia stato ancora sviluppato completamente questo tema. C'è un principio di Diritto che recita più o meno: "Ad Impossibilia Nemo Tenetur” (All’impossibile nessuno è tenuto).
Io fossi un Avvocato con l'incarico di difendere un RSPP coinvolto in un procedimento penale, beninteso un RSPP che ha svolto con diligenza e perizia il suo lavoro, mi appellerei a questo principio.
Saluti
Marco
Io fossi un Avvocato con l'incarico di difendere un RSPP coinvolto in un procedimento penale, beninteso un RSPP che ha svolto con diligenza e perizia il suo lavoro, mi appellerei a questo principio.
Saluti
Marco
Alla luce dell'ultimo post di Vise mi tremano le gambine ancor di più, allora la procedura proposta da weareblind che terminava con - ...sollecito, sollecito sollecito, andarsene, denuncia - pare veramente l'unica soluzione sicura quando tira brutta aria e rende particolarmente debole la posizione del RSPP soprattutto quando non si tratta di un professionista di fama consolidata sul mercato della sicurezza ma un semplice dipendente interno di una medio/piccola azienda che svolge quest'incarico come attività secondaria all'interno della ditta stessa :smt022
AIUTOOooooo.....
Sauzer
AIUTOOooooo.....
Sauzer
- weareblind
- Messaggi: 3254
- Iscritto il: 07 ott 2004 20:36
Questo in realtà ti toglie qualche responsabilità di dosso; se il tuo incarico è secondario e la tua preparazione modesta (perché non fai il RSPP di mestiere), le tue responsabilità vengono meno.
Tanto per fare un esempio recente, seppur molto criticato, riporto la seguente (Catanga e Linoemilio hanno espresso interessanti commenti che riporto a completamento; e nel contempo li ringrazio per la mano che mi danno a capire il settore edile!!!).
CONDANNATO DELLA CORTE DI CASSAZIONE UN COORDINATORE IN FASE DI ESECUZIONE PER NON AVER COMUNICATO ALL’ORGANO DI VIGILANZA LE INADEMPIENZE DEL COMMITTENTE.
Cassazione Penale, Sez. III - Sentenza n. 1722 del 21 gennaio 2005 (u.p. 18 novembre 2004) - Pres. Squassoni - Est. Franco - P.M. (Diff.) Izzo - Ric Carsetti.
CATANGA
Premesso che è sempre opportuno leggere nel dettaglio la sentenza, prima di esprimere un parere, direi che la cosa non mi soprende affatto.
I giudici applicano la legge.
Se la Legge pretende dal CSE che si faccia la comunicazione alla ASL, è la legge che va discussa e cambiata in quanto è una vera e propria assurdità chiedere al CSE di violare il rapporto fiduciario con il committente.
E' come se ad un avvocato, che difende il proprio assistito per furto, nel caso in cui quest'ultimo gli confessasse di aver spacciato droga, decidesse di denunciare anche questo reato commesso dal suo cliente.
In questo caso, scatterebbe la radiazione dall'ordine....
Personalmente ho sempre pensato che questo comma fosse un'inutile forzatura avente l'obiettivo di trovare un caprio espiatorio nel CSE di fronte all'impossibilità degli enti di vigilanza, di fare seriamente e continuamente vigilanza vuoi per carenza di organico ma vuoi anche perchè impegnati a fare altro (docenze, ecc.).
Nessun altro provvedimento legislativo di recepimento della dir 92/57/CEE, nei 15 paesi della UE, ha previsto una cosa del genere.
Forse un motivo ci sarà.....
LINOEMILIO
D'accordo con catanga.
... tuttavia, essendoci una Legge che impone determinate procedure, se si vuol fare i coordinatori con gli attributi, queste procedure si applicano.
Personalmente non sono molto incline a dimettermi perchè qualche figura del processo costruttivo non fa quel che dovrebbe fare.
Io, procedo nel modo previsto... al massimo sarà qualcunaltro che mi solleverà dall'incarico ben sapendo il rischio che corre se l'ASL o la DPL venisse a conoscerne i motivi.
Se non si fa in questo modo continueremo a leggere colleghi che si lamentano perchè il "sistema" non va come dovrebbe andare.
Non è facile... lo so... ma secondo la regola dell' Asse e Girello",
è l' UNICA STRADA.
Commento MIO; ma L'Asse e girello??????
weareblind
Tanto per fare un esempio recente, seppur molto criticato, riporto la seguente (Catanga e Linoemilio hanno espresso interessanti commenti che riporto a completamento; e nel contempo li ringrazio per la mano che mi danno a capire il settore edile!!!).
CONDANNATO DELLA CORTE DI CASSAZIONE UN COORDINATORE IN FASE DI ESECUZIONE PER NON AVER COMUNICATO ALL’ORGANO DI VIGILANZA LE INADEMPIENZE DEL COMMITTENTE.
Cassazione Penale, Sez. III - Sentenza n. 1722 del 21 gennaio 2005 (u.p. 18 novembre 2004) - Pres. Squassoni - Est. Franco - P.M. (Diff.) Izzo - Ric Carsetti.
CATANGA
Premesso che è sempre opportuno leggere nel dettaglio la sentenza, prima di esprimere un parere, direi che la cosa non mi soprende affatto.
I giudici applicano la legge.
Se la Legge pretende dal CSE che si faccia la comunicazione alla ASL, è la legge che va discussa e cambiata in quanto è una vera e propria assurdità chiedere al CSE di violare il rapporto fiduciario con il committente.
E' come se ad un avvocato, che difende il proprio assistito per furto, nel caso in cui quest'ultimo gli confessasse di aver spacciato droga, decidesse di denunciare anche questo reato commesso dal suo cliente.
In questo caso, scatterebbe la radiazione dall'ordine....
Personalmente ho sempre pensato che questo comma fosse un'inutile forzatura avente l'obiettivo di trovare un caprio espiatorio nel CSE di fronte all'impossibilità degli enti di vigilanza, di fare seriamente e continuamente vigilanza vuoi per carenza di organico ma vuoi anche perchè impegnati a fare altro (docenze, ecc.).
Nessun altro provvedimento legislativo di recepimento della dir 92/57/CEE, nei 15 paesi della UE, ha previsto una cosa del genere.
Forse un motivo ci sarà.....
LINOEMILIO
D'accordo con catanga.
... tuttavia, essendoci una Legge che impone determinate procedure, se si vuol fare i coordinatori con gli attributi, queste procedure si applicano.
Personalmente non sono molto incline a dimettermi perchè qualche figura del processo costruttivo non fa quel che dovrebbe fare.
Io, procedo nel modo previsto... al massimo sarà qualcunaltro che mi solleverà dall'incarico ben sapendo il rischio che corre se l'ASL o la DPL venisse a conoscerne i motivi.
Se non si fa in questo modo continueremo a leggere colleghi che si lamentano perchè il "sistema" non va come dovrebbe andare.
Non è facile... lo so... ma secondo la regola dell' Asse e Girello",
è l' UNICA STRADA.
Commento MIO; ma L'Asse e girello??????
weareblind
We are blind to the worlds within us waiting to be born